IL CAVEAU AUREO – La Scommessa Stigea – Episodio 01

IL CAVEAU AUREO – La Scommessa Stigea – Episodio 01

Le solite note:

  1. Ci saranno spoilers è evidente. Difficile creare una storia da una delle avventure originali del libro nell’immagine dell’articolo senza non farne: per cui l’eventuale lettore si ritenga avvisato.
  2. Il master è stato (e sarà) Grumpy Ze mentre Gattone, Piolo ed io (Isth) i giocatori di questa sessione.
  3. Il tono del racconto è volutamente scherzoso.
  4. l’Entità Senza Nome non fa parte delle avventure, ma è una semplice e forse neanche troppo originale invenzione narrativa.
  5. Nel momento della scrittura di questo articolo non mi sovviene altro possibile avviso di allerta da sottoporre al lettore, ma mi riservo il diritto di aggiungerne altri ad ogni nuova sessione.
  6. Buona lettura!

Prologo


In cui si aspetta il disastro e arrivano solo scartoffie


Sono passati diversi mesi dall’incidente del dinosauro. Il mondo, contro ogni previsione, non è finito, nessuno si è fatto esplodere con un artefatto proibito, e il Caveau Aureo non ha ricevuto nemmeno una lamentela formale in draconico antico, il che, per quanto mi riguarda, è segno che le cose stanno andando troppo bene.
E io? Io sto aspettando.
Aspetto il momento in cui qualcosa esploderà, crollerà, prenderà fuoco o—nel caso migliore—tutti e tre
contemporaneamente. Invece, niente.
Il trio, il glorioso trio destinato a scrivere la mia epopea e darmi un nome immortale… si è messo a fare missioni di routine. Sì, routine, quella parolaccia da archivisti.
Negli ultimi tre mesi, questi sono i momenti più “epici” che ho potuto registrare:


Menasfil Athene ha passato due settimane in un monastero di monaci silenziosi cercando di“comprendere la natura dell’elemento fuoco” attraverso la meditazione e il tè. Alla fine ha accidentalmente fatto esplodere la teiera. Due volte. Non c’è stato nulla da raccontare tranne una sedia in fiamme e un monaco con la tunicacompletamente evaporata.


Roscoe, il monaco mezz’orco, ha passato un mese a “sorvegliare” una porta in un magazzino del porto.
Nessuno è mai entrato. Nessuno è mai uscito. L’unico momento di tensione è stato quando ha quasi lanciatoun’anfora addosso a un topo, ma si è trattenuto per “non disturbare il flusso dell’equilibrio”. Non saprei dire chi fosse più annoiato, lui o il topo.


Rennoise, il nostro halfling ladro, ha partecipato a un torneo clandestino di scacchi truccati. Sì, scacchi.
Truccati. E ha perso. Contro un vecchio goblin orbo. Sospetto che fosse solo un modo per rubargli i calzini, ma anche lì, nessuna soddisfazione narrativa: i calzini erano normali.


Poi vi fu la caccia al Topo Mannaro smarrito di un nobile locale: un roditore metamorfico che, lungi dall’essere una bestia sanguinaria, seminava scompiglio rosicchiando calzini nei cassetti al plenilunio. E come dimenticare la delicatissima missione di recuperare le chiavi della dispensa del Caveau Aureo, cadute in un tombino? Un incarico talmente umile che persino Rennoise si era sentito offeso nell’orgoglio.

Queste missioni non erano esattamente ciò che Menasfil Athene, stimata stregona, avrebbe definito esaltanti. Neanche Roscoe, monaco mezz’orco dal temperamento sorprendentemente paziente (per essere un mezz’orco, s’intende), aveva trovato molta illuminazione spirituale nell’estrarre chiavi da pozzetti maleodoranti.
Quanto a Rennoise, beh, lui sosteneva che rubare la noia alla gente comune fosse un compito ingrato: nessunoti ringrazia mai per esserti annoiato al posto loro.


Ah, e non dimentichiamo Meera, che continua a seguire il gruppo come un’ombra silenziosa. Non parla, non interviene, non commenta. Una volta ha guardato un bandito così intensamente che l’uomo ha deciso di cambiare vita e iscriversi a un coro di villaggio. Ma io non posso scrivere un’epopea intera su uno sguardo e una crisi esistenziale con accompagnamento musicale.


Così mi trovo qui, l’Entità Senza Nome, seduto metaforicamente su una pila di pergamene vuote, a chiedermi se la grande epopea che mi conquisterà un nome passerà alla storia come Le Lente Passeggiate di Tre Inadatti e la Loro Amica Muta.
Eppure… percepisco qualcosa.
C’è un leggero fruscio nell’aria, come se le correnti del destino stessero girando pagina, o almeno stessero
considerando seriamente di farlo. I segnali sono vaghi, confusi, e probabilmente frutto della mia immaginazione – che, va detto, ha parecchio tempo libero ultimamente.
Menasfil, proprio ieri, ha detto a bassa voce: “Magari la prossima missione potrebbe essere interessante.”
E sebbene lo dica ogni volta che le viene servito un nuovo tipo di vino, stavolta… stavolta c’era un tono diverso.
Non lo so.
Forse sarà un’altra gloriosa impresa fatta di porte chiuse, noiose discussioni e piccoli fuochi accidentali.
Forse, questa volta, qualcosa succederà davvero.
Forse sarà finalmente l’inizio del nuovo capitolo dell’epopea che sto aspettando.
In caso contrario, il titolo “Le Calze dell’Eroe: un’analisi comparata” resta ancora sul tavolo.


Una pausa a Skuld


Ora il gruppo si trovava a Skuld, la capitale di Mulhorand, per concedersi una meritata pausa. Skuld era
un’immensa distesa urbana di case basse e polverose, sopra cui svettavano templi e palazzi governativi che sembravano voler toccare il cielo (o forse tentare di borseggiare le nuvole, a giudicare dall’altezza). Con i suoi duecentomila abitanti – almeno secondo l’ultimo conteggio ufficiale, che probabilmente non teneva conto dei venditori ambulanti e degli dèi minori in visita – la città pullulava di vita. Il Fiume delle Ombre l’attraversava placido, riflettendo i raggi del sole in bagliori dorati e ombre danzanti. Qualcuno sosteneva che quelle ombre fossero gli spiriti degli antichi faraoni intenti a farsi un bagno; altri, più pragmaticamente, notavano che gettare tinture e panni nel fiume per lavare tende e tappeti produceva lo stesso effetto.
I tre sedicenti eroi sedevano attorno a un tavolino all’aperto in un vivace quartiere turistico, sorseggiando tè alla menta da minuscole tazze decorate. Un narghilè dal lungo tubo serpentava al centro del tavolo, emanando volute di fumo profumato che Roscoe si divertiva a soffiare in cerchi perfetti – la disciplina monastica applicata all’arte di fare anelli di fumo. Rennoise, le gambe penzoloni dalla sedia troppo alta per lui, tamburellava le dita sul tavolo in un ritmo irrequieto: da troppo tempo non borseggiava nessuno e le mani gli prudevano come a un poeta senza penna. Menasphil invece girava distrattamente il cucchiaino nel suo tè, fissando le foglioline di menta sul fondo della tazza come se fossero stelle in cui leggere il destino. Ogni tanto sospirava, producendo piccoli vortici sulla superficie del tè e borbottando qualcosa sui “destini gloriosi finiti in un tombino”.
Intorno a loro la strada brulicava di attività. Mercanti dalle voci stentoree decantavano tappeti volanti in
promozione (“Solo qualche piccola turbolenza in quota, signora, nulla di cui preoccuparsi!”). Incantatori semi pensionati offrivano incantesimi rinfrescanti contro la calura in cambio di una moneta; un fachiro su un letto di chiodi stava probabilmente riposando prima dell’orario di punta dei turisti. Un gruppo di bambini mulhorandiani rincorreva uno scarabeo meccanico che zigzagava tra le bancarelle, mentre un cammello nelle vicinanze osservava la scena con un’espressione che poteva significare sia saggezza millenaria sia il semplice desiderio di una carota.


Fu in questo ambiente vivace che Meera fece la sua comparsa, silenziosa come un gatto ombra al tramonto. Un attimo prima non c’era, e l’attimo dopo eccola lì: seduta accanto a Rennoise, con la stessa discrezione di una figurante dipinta sullo sfondo. Indossava il suo solito velo leggero che lasciava intravedere solo gli occhi attenti e un mezzo sorriso – non che qualcuno l’avesse mai vista ridere apertamente, ma quel giorno sembrava quasi divertita.
Senza dire una parola (come di consueto), Meera posò sul tavolo tre piccole chiavi d’oro, porgendole a Menasfil, Roscoe e Rennoise rispettivamente. I tre si scambiarono un’occhiata complice e, all’unisono, inserirono le chiavi nelle fessure apposite dei loro amuleti a forma di piccola cassaforte.
«Speriamo che questa volta non ci chiedano di trovare altri calzini magici smarriti,» mormorò Rennoise a denti stretti, facendo scattare la sua serratura.
«O di lavare le tende del faraone,» aggiunse Roscoe, ruotando la chiave con un clic.
Menasfil non disse nulla, ma prima di girare la chiave lanciò un’occhiata verso il cielo come a implorare gli dèi (o magari minacciarli, difficile a dirsi con quella stregona) di rendere la missione un pochino più interessante.
Quando anche la terza chiave fu girata, una voce registrata emerse da quell’armoniosa introduzione musicale, chiara e solenne come quella di un cantastorie epico… anche se l’effetto fu un tantino rovinato dal brusio di un mercante di spezie che proprio in quel momento stava lodando la qualità del suo cumino a gran voce. I nostri eroi tesero l’orecchio, cercando di ignorare il cumino, mentre la voce del Caveau Aureo pronunciava il suo messaggio:
“Un’alleata del Caveau, Verity Kay, si è vista sottrarre i risparmi di una vita da un infido socio di gioco
d’azzardo. Abbiamo deciso di rimediare a questa ingiustizia. Se decidete di intraprendere questa missione,
dovrete infiltrarvi nel Casinò dell’Oltretomba e rubare una statuetta e una somma di denaro. Per maggiori
informazioni, incontrate Verity alla Vedova Salmastra. Buona fortuna, agenti!”
Al termine dell’incisione, l’amuleto fece un piccolo clang finale, come un punto esclamativo musicale, e
tacque. Per un istante rimase solo il rumore della città attorno a loro: il mercante di spezie era passato dal
cumino al coriandolo, il fachiro sul letto di chiodi stava russando piano (forse come effetto collaterale del tè alla menta nell’aria), e il richiamo lontano di un venditore di datteri riecheggiava tra le vie.
Menasfil fu la prima a rompere il silenzio. «Finalmente qualcosa degno di noi,» disse piano, anche se nei suoi occhi verdeggianti brillava già la scintilla dell’eccitazione. La stregona ripose delicatamente la chiave d’oro in una tasca interna della sua veste. «Un colpo in un casinò… e nell’Oltretomba per giunta. Suona pericoloso.»
Sorrise appena. «Adoro pericoloso.»
Roscoe annuì lentamente, posando la mano massiccia sul tavolo con sorprendente leggerezza. «Il Casinò
dell’Oltretomba…» ripeté, assaporando le parole. «Ho sempre detto che il gioco d’azzardo conduce a una strada oscura.» Poi si batté il petto con il pugno, come fanno i monaci quando recitano un mantra. «È per questo che mi limito al domino e al poker con monete di rame. Ma se c’è da ristabilire l’equilibrio,» aggiunse con un sorriso tranquillo, «direi che è il caso di far vedere al banco che non vince sempre.»
Rennoise già pregustava l’azione: tamburellava ancora le dita ma stavolta in un ritmo allegro. «Infiltrarsi e
rubare? Finalmente parlano la mia lingua.» L’halfling ghignò, mostrando i denti in un sorriso da furbetto di
taverna. «E poi un casinò ha di certo un’ottima selezione di tasche da alleggerire. Tutto per una buona causa, ovviamente.» Si affrettò ad aggiungere l’ultima frase con un’occhiata a Roscoe, che lo fissava con le
sopracciglia alzate. Meera, fedele al suo ruolo di osservatrice silenziosa, non commentò. Si limitò a finire il suo tè con calma, gli occhi scuri che seguivano le espressioni dei compagni.
Ed io, l’Entità Senza Nome – quella presenza narrante che aleggiava attorno al gruppo come un vento
curiosamente cosciente – riassumevo in silenzio ciò che tutti stavano pensando: era la fine della loro pausa e l’inizio di una nuova avventura.
Mentre il sole di Skuld continuava a splendere impassibile sulle strade animate, i nostri eroi si alzarono dal
tavolino, lasciando qualche moneta per il tè e uno sguardo di scuse al narghilè ancora mezzo pieno. La quiete pomeridiana era ufficialmente finita: c’era un’ingiustizia da riparare, una Vedova Salmastra da trovare e, presumibilmente, un Casinò dell’Oltretomba da svaligiare.
Dopotutto, nel mondo di Toril, anche una sosta per il tè può trasformarsi in un preludio a imprese leggendarie. E chissà, forse questa volta avrebbero finalmente avuto l’avventura emozionante che aspettavano… con buona pace dei calzini smarriti.

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